How to prevent the next pandemic (ITA)

Dopo due anni di pandemia, Bill Gates ci consegna un libro che in circa trecento pagine può fungere sia da monito che da manuale per il futuro. How to prevent the next pandemic, pubblicato lo scorso 3 maggio dalla casa editrice Allen Lane, ha fatto parlare di sé sin dal momento della sua divulgazione. La pandemia da Coronavirus, infatti, non si è ancora estinta e continua ad affliggere i governi di tutto il mondo con le sue implicazioni sociali, politiche, sanitarie ed economiche, ma Mr. Gates rivolge già il suo sguardo al futuro, cercando di trovare una risposta all’esistenziale domanda che da anche il titolo a questo libro “Come possiamo prevenire la prossima pandemia?”. Il fondatore di Microsoft è fermamente convinto – e personalmente, dopo aver letto il suo libro, mi trovo d’accordo con lui – che imparando dall’attuale pandemia e mettendo in atto una serie di strategie per il futuro, potremo evitare il divampare di una crisi sanitaria globale come quella causata dal Covid-19.

Basandosi sulle opinioni condivise dei maggiori esperti mondiali e sulla propria esperienza nella lotta alle malattie mortali attraverso la Fondazione Gates, in How to prevent the next pandemic Bill Gates espone in modo chiaro e convincente l’importanza di essere più preparati al diffondersi di nuovi virus.

Il libro si articola in nove capitoli più un’Introduzione ed una Postfazione, il cui nucleo fondamentale ruota attorno all’idea che se da una parte le epidemie sono inevitabili, dall’altra le pandemie sono facoltative. Il mondo, quindi, nel pensiero di Gates non deve vivere nella paura della prossima pandemia, ma deve fare i giusti investimenti a beneficio di tutti, nell’ottica di rendere il Covid-19 l’ultima pandemia di sempre.

Come molti ricorderanno, Bill e Melinda Gates si sono impegnati nella lotta al virus fin dai primi giorni, collaborando con esperti interni ed esterni alla Fondazione Gates che da decenni combattono le malattie infettive. Questo impegno ha inevitabilmente portato Mr. Gates a riflettere su molti fattori della risposta alla pandemia che avrebbero potuto essere più veloci ed efficienti.

Partendo dal fatto che i virus respiratori, inclusi influenza e coronavirus, sono particolarmente pericolosi poiché si diffondono molto rapidamente, Bill Gates ci spiega che le probabilità che una pandemia colpisca il mondo sono in continuo aumento; in parte perché l’essere umano con l’urbanizzazione sta invadendo innumerevoli habitat naturali e, di conseguenza, interagisce con gli animali più spesso creando le condizioni che permettono ad una malattia di passare dall’animale all’uomo. Oltre a ciò, altro punto fondamentale da considerare è l’assenza di preparazione tecnica che in generale tutti i paesi del mondo hanno dimostrato nel rispondere al virus. Già nel 2015, nel corso di un discorso alla conferenza TED intitolato The next epidemic? We’re not ready, Gates aveva sottolineato l’importanza di pianificare ogni tipo di scenario – dalla ricerca sui vaccini alla formazione degli operatori sanitari – per evitare il divampare di virus sempre più pericolosi. Ricalcando tale importanza, How to prevent the next pandemic espone come governi, scienziati, aziende ed individui possono costruire un sistema in grado di contenere gli inevitabili focolai così da evitare che questi si trasformino in pandemie. Nello specifico ogni capitolo del libro spiega un diverso passo da compiere per essere pronti e, nell’insieme, tutti questi passi costituiscono un piano per eliminare future pandemie e ridurre le probabilità che la società debba attraversare un altro Covid-19.

Il primo capitolo ricalca l’importanza dell’imparare dalla pandemia causata dal Covid-19. Il punto di partenza è costituito da un’azione repentina. Non a caso, molti dei paesi che hanno avuto un basso eccesso di mortalità – Australia, Vietnam, Nuova Zelanda, Corea del Sud – all’inizio della pandemia hanno testato rapidamente una grande parte della popolazione, isolato repentinamente gli individui risultati positivi e quelli che erano stati esposti al virus, e messo in atto un piano per tracciare, sorvegliare e gestire i casi che avevano attraversato i loro confini. Ovviamente – spiega Gates – così come alcuni paesi ci mostrano cosa fare e come agire, altri ci mostrano il contrario. Non tutti hanno fatto la giusta cosa. Alcune persone si sono rifiutate di indossare la mascherina o di vaccinarsi. Alcuni politici hanno negato la gravità della malattia ed evitato di mettere in atto le chiusure necessarie ad arrestare la diffusione del virus.

Un altro punto fondamentale, più volte rimarcato dall’autore, è che investire nell’innovazione oggi ripagherà in futuro. A questo proposito, nel secondo capitolo Gates sottolinea l’importanza di mettere in campo un corpo globale di esperti il cui compito è studiare come rispondere a malattie che potrebbero uccidere migliaia di persone. In poche parole, il mondo non ha mai investito prima nei meccanismi necessari a prevenire future pandemie ed ora è il momento di farlo.

Oggi, le organizzazioni che lavorano per rispondere alle pandemie sono molte, la più nota è sicuramente la Global Outbreak Alert and Response Network (GOARN) che svolge un lavoro eroico senza tuttavia avere il personale, i fondi o il mandato globale necessari ad affrontare ogni minaccia.

Ciò che dunque Bill Gates auspica è la creazione di un’organizzazione permanente di esperti, completamente retribuiti e preparati ad organizzare, in qualsiasi momento, una risposta coordinata ad un’eventuale epidemia pericolosa. Mr. Gates propone di chiamare questo gruppo GERM – Global Epidemic Response and Mobilization – e di riempirlo di esperti provenienti da tutto il mondo con un’ampia gamma di competenze (epidemiologia, genetica, diplomazia, logistica, modelli informatici, comunicazione, ecc..) i quali, quando non lavorano attivamente sul campo, sono basati nelle agenzie di salute pubblica dei singoli Paesi, negli uffici regionali dell’OMS e nella sede centrale di Ginevra.

A più riprese nel corso del libro, Gates spiega come il lavoro più importante di questo team sarebbe quello di aiutare a gestire le esercitazioni di risposta alle epidemie per verificare se il mondo è pronto per la prossima grande pandemia. Tuttavia, l’impatto del GERM non si limiterebbe a fermare le pandemie, il gruppo, infatti, migliorerebbe anche la salute generale in tutto il mondo, soprattutto nei Paesi più poveri.

Un’altra parte importante della prevenzione è rappresentata dallo studiare e tenere sotto controllo costante il diffondersi dei diversi virus. Infatti, con i giusti investimenti e la giusta preparazione in futuro, durante un’epidemia, saremo in grado di testare rapidamente un elevato numero di persone. Una risposta rapida ed efficiente è inevitabilmente connessa allo sviluppo di sistemi di raccolta dati digitali così da permettere agli uffici di salute pubblica di essere sempre aggiornati sula situazione della propria comunità, nonché alla capacità dei governi di tutto il mondo di stabilire relazioni lavorative con esperti di malattie infettive provenienti sia dal settore pubblico che da quello privato.

Nel quarto capitolo, l’autore approfondisce una tematica che nel corso di questi ultimi due anni di pandemia ha afflitto innumerevoli paesi e governi: la necessità di insegnare ed aiutare le persone a proteggere sé stesse e gli altri. Il modo più utile con cui tutti noi possiamo fare la nostra parte è costituito dalle cosiddette “invenzioni non farmaceutiche” – NPI – (mascherine, igienizzanti, lockdown, ecc..). L’ironia delle NPI è che più sono utili ed efficaci, più è facile che vengano criticate. Tuttavia, come il nostro recente passato dimostra, i lockdown – ad esempio – hanno permesso di alle economie mondiali di riprendersi più velocemente, semplicemente obbligando le persone a stare in casa e salvando così delle vite. Ovviamente, non tutto ciò che i governi hanno messo in atto nel corso dell’attuale pandemia è stato giusto, né tanto meno sarà necessario in futuro ripetere ogni singola azione compiuta nella lotta al Covid-19. In particolare, Gates si focalizza sulla chiusura delle scuole, sottolineando come per l’avvenire non sarà necessario chiuderle per periodi di tempo prolungati, soprattutto se la comunità mondiale sarà in grado di fornire vaccini per tutti nel corso di 6 mesi.

Tuttavia, ciò che funziona per un posto o un paese non funziona necessariamente anche per un altro. I lockdown sono un chiaro esempio di tale disparità. Come spiegato dall’autore, il distanziamento sociale e le chiusure forzate funziona maggiormente per i paesi ed i quartieri più ricchi; questo perché le persone più ricche fanno tendenzialmente lavori che non li obbligano a spostarsi e ad uscire per andare a lavorare e perché possono permettersi di stare chiusi in casa. Di conseguenza, così come è importante sviluppare ed implementare lo studio di nuovi vaccini, nuovi test per le malattie infettive e nuovi trattamenti, allo stesso modo è importante lavorare sulle disparità che affliggono la comunità globale e che, di conseguenza, rallentano il contrastare future pandemie. Sia a livello locale, sia a livello globale.

Un ulteriore tematica ricorrente del libro è che la comunità globale non deve scegliere se prevenire le future pandemie o implementare la salute globale: queste infatti si rinforzano a vicenda.

La più grande scoperta medica di questa pandemia – nonché una delle più importanti degli ultimi decenni – è stata la creazione dei vaccini contro il Covid-19. Uno studio ha rilevato che nel primo anno hanno salvato più di 1 milione di vite e impedito 10 milioni di ricoveri solo negli Stati Uniti.

La creazione e la distribuzione dei vaccini è stata piuttosto rapida, tuttavia ci sono una serie di problemi che necessitano di essere risolti prima che arrivi la prossima potenziale pandemia, come l’enorme disparità tra chi è stato vaccinato e chi no.

È importante ricordare che la rapidità con cui i vaccini contro il Covid-19 sono stati messi in atto dipende in buona parte da una questione di “fortuna”. I coronavirus, infatti, avevano già causato due precedenti epidemie (SARS e MERS), consentendo agli scienziati di imparare molto sulla struttura del virus. In particolare, la comunità scientifica – prima del 2020 – aveva già identificato la caratteristica proteina spike del Covid – le punte del virus simili a una corona di cui sono state diffuse innumerevoli immagini – come un potenziale bersaglio per i vaccini, così quando è arrivato il momento di creare nuovi vaccini, gli scienziati hanno repentinamente capito quale parte del virus era più vulnerabile all’attacco. Nella prossima epidemia – ci mette in guardia Mr. Gates – potremmo non essere così fortunati. Potrebbe essere causata da un virus che gli scienziati non hanno ancora studiato.

Ecco perché, secondo l’autore, la comunità globale deve adottare un piano serio per lo sviluppo, la produzione e la distribuzione di nuovi vaccini per prevenire un’altra pandemia. Tuttavia, è bene tenere a mente la difficoltà e soprattutto i costi elevati di tali processi. La sola produzione è una sfida enorme: per evitare le disuguaglianze che abbiamo visto nel Covid-19, il mondo dovrà essere in grado di produrre vaccini sufficienti per tutti gli abitanti del pianeta entro sei mesi dalla scoperta di un nuovo agente patogeno (circa 8 miliardi di dosi per un vaccino a dose singola e 16 miliardi per una versione a due dosi). Per fare questo Bill Gates propone – nel sesto capitolo – un piano in quattro fasi, a partire dall’accelerazione dell’invenzione di nuovi vaccini.

Tutte ciò necessita inevitabilmente di molta pratica. “Practice, practice, practice”, non ha caso così l’autore ha voluto chiamare il capitolo successivo, nel quale auspica per il futuro una serie di piani di simulazione che aiuteranno la comunità globale ad evitare l’esplodere di future pandemie. Dunque, così come innumerevoli governi spendono milioni in esercitazioni militari, allo stesso modo dovranno in futuro investire in esercitazioni sanitarie che ci renderanno tutti più preparati qualora un altro virus dovesse diffondersi. Tali esercitazioni saranno utili non solo a prevenire ulteriori pandemie, bensì aiuteranno anche i governi ad essere preparati nel caso di attacchi di Bioterrorismo (che consiste nell’utilizzo intenzionale di agenti biologici – come virus, batteri o tossine – in azioni contro l’incolumità pubblica). Proprio la possibilità di un attacco di bioterrorismo è una delle ragioni per cui i governi di tutto il mondo dovrebbero investire più denaro nella ricerca, nello studio e nella prevenzione di malattie che possono “diventare globali”. Inevitabilmente, gli investimenti di denaro pubblico – così come la capacità di affrontare le crisi – sono più semplici e possibili nei paesi più ricchi, fatto che contribuisce enormemente ad acuire le disparità tra paesi sviluppati e paesi non sviluppati o in via di sviluppo. A questo proposito Mr. Gates propone per l’immediato futuro di cominciare a diminuire le distanze tra i paesi ricchi e i paesi poveri, soprattutto in ambito di salute pubblica dato che “dove viviamo e quanti soldi abbiamo, determinano le possibilità che abbiamo di morire giovani o diventare adulti abbienti”. Diminuire le distanze tra i paesi più o meno abbienti non solo contribuisce ad annullare le ingiustizie in termini di salute e sanità, ma aiuta anche a prevenire il diffondersi di nuove pandemie. Dunque, ne beneficiano sia i paesi ricchi sia i paesi poveri.

In conclusione, Bill Gates ci ricorda che investire denaro pubblico nel pianificare e nel prevenire nuove pandemie renderà le persone più sane, salverà vite e ridurrà il divario sanitario tra ricchi e poveri, anche quando il mondo non sia effettivamente di fronte a un’epidemia attiva. How to prevent the next pandemic rappresenta dunque un manuale, un’opportunità non solo per impedire che le cose peggiorino, ma anche per migliorarle. “Non dobbiamo arrenderci – dice Mr. Gates – a vivere nella perenne paura di un’altra catastrofe globale. Ma dobbiamo essere consapevoli di questa possibilità ed essere disposti a fare qualcosa. Spero che il mondo colga questo momento e investa nei passi necessari per rendere il Covid-19 l’ultima pandemia”.

Personalmente ho trovato la lettura di questo libro estremamente interessante, ma soprattutto illuminante. Leggere How to prevent the next pandemic mi ha fatto capire quante cose vengono spesso date per scontate oggigiorno, specialmente per chi come me vive in paesi sviluppati. Dalla distribuzione dei vaccini alla possibilità di trovare dispositivi sanitari o tamponi, tutto è più semplice se ci basta uscire di casa e fare pochi metri per trovare una farmacia. La pandemia da Covid-19 ha colpito tutti i paesi del mondo senza distinzioni, ma la capacità dei governi di rispondere a tale crisi è stata inevitabilmente correlata alla tipologia di paese (ricco o povero, sviluppato o sottosviluppato). Credo, dunque, che la lettura di questo manuale – come tale dovrebbe essere letto – possa rivelarsi estremamente utile, tanto per i singoli individui quanto per i governi stessi.

Francesca Teresi

The psychological fallout of the war in Ukraine

Life has changed in so many ways for us, the Ukrainian people. We have lost the many basic comforts of our lives and our houses, while our beliefs, our opinions, and our attitudes toward living have all changed dramatically. We are fearful of potential nuclear war, and the current war that could, if it continues to escalate, affect people around the world.

Hundreds of people live in the Kharkiv metro because of the war. Photo by David Peinado / Pexels

As an academic, I view the effects in multiple dimensions. Through personal research, I know the shock and uncertainty Ukrainians are facing; the changes they are experiencing in their psychological wellbeing that have come about from an uncertain existence. At the same time, my everyday life has evolved into something that doesn’t feel real. Immense traffic jams as people flee their homes, people clad in military gear and weapons walking on the streets, explosions and alarms urging us to take shelter from an imminent threat. And we don’t know when any of this will end.

A mental burden we all bear

The Ukrainian people have acted with an extraordinary resilience though. Voluntary organizations have formed quickly to help, some providing defense and patrolling neighborhoods, while others have set up mental health hotlines to provide people with much needed psychological support. Many of those volunteering have been misplaced  thousands of people who have been forced to leave their homes, their jobs, and their lives behind are offering to support millions of people just like them.

It’s hard for many of us to comprehend the immense psychological strength these efforts take. I spent time volunteering at the very beginning of this war, helping those fleeing their homes to find a place to go. On that day, our team met an estimated 35,000 refugees who all needed shelter. But our social infrastructure simply wasn’t built for such a crisis; the organizational skills simply didn’t and don’t exist. We are left with a situation of not being able to help people who are in dire need. Yes, we can provide food and clothes, but where can people go?

For those that do make it to a refugee shelter, life now consists of living in a shared space with others. Often these spaces are massively over-populated, some housing thousands of people. The smells, lack of oxygen, and external noises all present discomforts, while a lack of structure brings its own psychological burden. People now have no purpose. They simply wait for mealtimes while digesting information that further aggravates their stress during their free time.

Worse still, outdated stigmas get in the way of them receiving help. In Ukraine, when you offer psychological support, many people hear the prefix ‘psych’ and immediately shut down any avenues of discussion. They don’t want to be thought of as having ‘mental disorders’ or mentally ‘ill’. They simply will not accept the help you can offer them.

Diversification of reality

The shock of this war is not being felt by everyone in the same way. A phenomenon called ‘diversification of reality’ is currently at play, creating individual narratives to something that from the outside looks like it could only ever exist in one form.

Ukrainians living in war-affected areas of the country, for example, are experiencing something very different to those living in unaffected cities or towns. These different perspectives are more damaging to societal attitudes than you might think. Those who have lived under imminent threat will be dealing with extreme stress and potential post-traumatic stress disorder, while those who haven’t been directly affected will likely be dealing with less severe psychological distress.

Ultimately this means that when refugees from affected areas relocate and settle in unaffected areas, it is difficult for both parties to understand each other. A directly affected refugee may for example feel resentment toward the unaffected, while the unaffected will likely struggle to comprehend or empathize with the affected.

And this isn’t just between strangers: the same goes for families. Husbands or fathers who have been called up to fight will be dealing with entirely different scenarios and emotions to their loved ones. Their loved ones may be living in shelters which, as I described, may mean they are living in extreme discomfort. Men on the front line may also be feeling extreme distress but in a different way. When these family members meet again, their understanding of each other has forever been transformed and may never recover.

Societal division

With all this happening, you are also met with something that war very quickly creates: societal division. You are either an ally or an enemy, and many refugees who aren’t Ukrainian are met with a new-found patriotism from natives who see them as ‘outsiders’. This tension, combined with the fact that personal, financial, and social needs are already severely unmet for many refugees, leads to emotional burnout for everyone involved.

Societal division is further stoked by a curious means. Due to a lack of wanting to face reality, a willingness to close oneself off from the trauma of war, people turn toward any possible method of distraction. Currently, this tends to be television or social media.

With little else to do, people begin to consume this media in large quantities, allowing for a unique characteristic to blossom among society: a virtualization of expertise. As people consume more and more media related to the war, they begin to believe themselves to be experts on what is happening. This becomes a problem if their sources are biased to present a specific version of events. This leads to a variety of experts with a variety of different perspectives on the war, many of whom struggle to comprehend the perspectives of others, leading to societal tension and bitterness.

The will to carry on

You would think it would be easy for individuals to collapse under such a hefty psychological weight. But humans are strong. And I can tell you first hand that this particularly applies the proud people of Ukraine.

I have witnessed people arrive at a refugee shelter after an 18-hour journey on a packed train where they have had to stand for the entire time. The scenes many of them have witnessed and the basic comforts they have been denied are inconceivable to the rest of us. Even as I helped them with their bags, guided their children to a safe place, and reassured them that they were safe, my imagination could never fully understand their trauma. And yet, even in the face of the psychological scars they now undoubtedly bear, they continue to seek to survive.

Building bridges

Even with a fierce will to survive, the people of Ukraine need mental health support now more than ever. And that’s why a team of fellow psychologists and I are in the process of developing a method of allowing people to provide others with mental assurance. A kind of ‘horizontal diplomacy’ that lets people from around the world to act as a virtual shoulder to lean on for the people in Ukraine who have been affected by this war. Because together we can help each other, and together we can make a difference.

Dr Viktor Vus

Published with permission from https://www.talkingmentalhealth.com/

La doppia natura di TikTok

Lo scorso marzo una coalizione di procuratori provenienti da 8 Stati statunitensi (Massachusetts, California, Florida, Kentucky, Nebraska, New Jersey, Tennessee e Vermont) ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla piattaforma cinese TikTok per capire se i metodi e le tecniche utilizzate dal social possano arrecare danni su giovani ed adolescenti. 

Il social network cinese, lanciato inizialmente nel 2016 con il nome di Musical.ly, ha conosciuto un incremento notevole nel corso del 2020 complice anche la pandemia da Covid-19; il social è infatti divenuto estremamente popolare tra preadolescenti e adolescenti soprattutto grazie alle misure di isolamento anti-contagio. Tale popolarità ha portato con sé una serie di conseguenze e preoccupazioni, con l’Unione Europea che ha chiesto la creazione di una task force dedicata a mettere in guardia utenti e non solo dai rischi del social cinese. Ma cosa rende TikTok così popolare? Innanzitutto per navigare sulla piattaforma non è necessario aprire un account, basta infatti scaricare l’app per visualizzare tutti i contenuti presenti sul social, dopodiché ci si troverà davanti video con una durata che va dai 15 ai 60 secondi arricchiti da canzoni, effetti sonori e visivi estremamente attrattivi. La fase di registrazione è la prima che ci si trova davanti quando viene scaricata una nuova piattaforma ed è estremamente importante, basta richiedere un’informazione personale di troppo per perdere un potenziale utente. Avendo eliminato questa fase TikTok si rende immediatamente utilizzabile già dopo l’installazione, catturando l’interesse delle fasce più giovani di età notoriamente inclini ad una veloce perdita di interesse (circa il 66% degli utenti è di età inferiore ai 30 anni).

Dai colori all’impostazione, l’app di TikTok è stata realizzata con l’intento di intrattenere gli utenti e farli rimanere sulla piattaforma il più a lungo possibile. Chiunque lo abbia utilizzato almeno una volta, infatti, sa quanto sia difficile smettere di scorrere i video uno dopo l’altro. Tutto ciò ha senza dubbio un impatto rilevante sulle nostre vite personali e professionali, influenzando il modo in cui comunichiamo, restiamo connessi e condividiamo informazioni. Già nel luglio 2019 – prima ancora che la pandemia da Coronavirus ne accentuasse l’uso – il numero di utenti attivi sui social media in tutto il mondo aveva raggiunto i 3,534 miliardi, di cui si stima oltre 500 milioni siano attivi su TikTok.

Tuttavia, se da un lato il social cinese possa sembrare solo un’app divertente, dall’altro non devono essere tralasciati gli effetti ancora sconosciuti sulla salute soprattutto di giovani e giovanissimi. 

Diversi studi, infatti, hanno dimostrato che un uso eccessivo dei social media può essere specchio e coadiuvante di una depressione. Nella maggior parte dei casi le preoccupazioni legate agli effetti negativi dei social si riferiscono alle ripercussioni per i più piccoli ad esempio in termini di cyberbullismo o challenge pericolose (di cui parleremo successivamente). Sebbene tali pericoli siano concreti e la maggior parte della narrativa pubblica sugli effetti dei social media affermi che la sola esposizione ad essi sia legata a problemi di salute mentale, uno studio condotto da Chloe Berryman, Christopher J. Ferguson e Charles Negy ha rilevato che la qualità piuttosto che la quantità dell’uso ha un impatto maggiore. 

Nell’ultimo decennio, l’aumento del disagio mentale e del trattamento delle condizioni di salute mentale tra i giovani è cresciuto proporzionalmente ad un forte aumento di partecipazione “inconsapevole” nei social media da parte di bambini e adolescenti. In particolare, diversi studi hanno scoperto che spesso, l’uso inconsapevole dei social media è associato a preoccupazioni per l’immagine corporea e ad un’alimentazione disordinata. 

Negli ultimi anni il susseguirsi di fatti di cronaca legati all’app ha messo TikTok al centro di severe polemiche da parte dell’opinione pubblica, soprattutto genitori e parenti, intimoriti dai pericoli in cui i più piccoli possono incappare. Indubbiamente la paura principale è legata alle cosiddette Challenge, ossia sfide pericolose, pubblicate e divenute estremamente virali su Tik Tok, dove chi vi aderisce è chiamato ad agire in modo estremo, il tutto documentato su un video per ottenere like, consensi e follower. 

D’altro canto, però, oltre ai potenziali effetti negativi, l’utilizzo di social media come TikTok porta con sé anche esiti positivi come la possibilità di conoscere direttamente fatti ed eventi che accadono nel mondo o di conoscere ed entrare in contatto con esperienze di persone nelle quali ci si rispecchia. In tal senso, un esempio importante è rappresentato dai benefici che la comunicazione sanitaria tramite TikTok ha avuto nel contrastare la pandemia da Coronavirus. I dipartimenti di sanità pubblica hanno, infatti, sfruttato i vantaggi offerti dai social media per fornire educazione sanitaria e per comunicare con i cittadini circa i rischi del contagio. L’isolamento forzato, resosi necessario per arrestare la diffusione del virus, ha comprensibilmente fatto aumentare il tempo “non educativo” trascorso sullo schermo permettendo agli individui, soprattutto ai più giovani, di rimanere connessi con il mondo esterno mentre i mezzi di comunicazione più convenzionali diventavano sempre più impraticabili. La diffusione tramite la piattaforma cinese di informazioni riguardanti il virus, i rischi del contagio e la prevenzione, ha dimostrato di essere un mezzo fondamentale per i professionisti per educare e sfatare la fake news sul COVID-19.  

Da un punto di vista aziendale, grazie alla sua grande popolarità, TikTok rappresenta una piattaforma con elevato potenziale in termini di marketing e pubblicità. Non è un caso che sempre più aziende aprano un profilo sul social cinese o si servano di influencer e personaggi molto popolari per vendere e sponsorizzare i propri prodotti. Questo nuovo metodo di fare pubblicità porta ovviamente notevoli vantaggi, data la rapidità e l’immediatezza di TikTok come strumento vincente per la comunicazione online soprattutto verso un pubblico di giovanissimi. Inoltre, fare pubblicità sul social media risulta particolarmente semplice ed efficiente: basta riprendersi con uno smartphone, aggiungere una base musicale o un filtro accattivante, e condividere il video all’interno della community. 

La piattaforma di per sé è stata ideata contemporaneamente come un meccanismo economico al servizio di mercati multilaterali e come infrastruttura online che permette agli utenti di svolgere particolari tipi di attività. Per supportare queste attività TikTok ha anche lanciato un programma “Back to Business” che sovvenziona le piccole e medie imprese fino a 2.000 dollari di credito pubblicitario per lanciare campagne pubblicitarie sulla piattaforma, nonché la Marketing Application Programming Interface (API) che permette agli inserzionisti di monitorare le metriche chiave e misurare il successo delle loro campagne TikTok. Successivamente, per attirare un maggior numero di utenti il social media diversifica la creazione di contenuti attraverso l’uso di hashtag e challenges. 

Con la popolarità della piattaforma in continua crescita a moltiplicarsi sono anche le convergenze politiche e le azioni di regolamentazione dei vari governi. In particolare TikTok si trova ad affrontare due serie di sfide normative: la policy e la sicurezza dei dati e la regolamentazione dei contenuti. 

Infatti, con una base di utenti costituita principalmente da giovani ed adolescenti la protezione dei dati e della privacy degli iscritti è continuamente sotto l’occhio vigile delle autorità di regolamentazione della privacy. A detta dell’azienda cinese i dati degli utenti sono classificati in tre differenti gruppi: informazioni personali, contenuti generati dagli utenti e interazioni degli utenti. Nello specifico, le prime sono quelle informazioni fornite dagli utenti quando registrano nuovi account (indirizzo e-mail, posizione, età, ecc..), i secondi comprendono i contenuti video prodotti dagli utenti e, infine, gli ultimi contengono i dati su come gli utenti si impegnano nell’interazione sociale su TikTok (amici, like, condivisioni, ecc..). Oltre ad informazioni come età, nome, e-mail o numero di telefono, durante l’uso TikTok raccoglie anche altri dati comportamentali come informazioni di pagamento, servizi di terze parti e dati di localizzazione al fine di migliorare i prodotti e i servizi offerti, offrire la personalizzazione o fornire promozione e marketing. Dopo aver raccolto questi dati, la piattaforma si avvale di un sistema di intelligenza artificiale che analizza dati e contenuti per definire se i video riscuotono successo tra gli utenti, probabilmente basandosi su attributi come engagement e tempo di visualizzazione. Infine, tale intelligenza artificiale propone poi agli utenti dei video basandosi su quelli che ritiene essere i loro interessi. 

Tuttavia, soprattutto negli ultimi mesi, l’aumento della disinformazione su TikTok e, in generale, su molti social (Facebook, Instagram, Twitter, ecc…) ha generato crescenti preoccupazioni circa la necessità di controllare e regolare i contenuti dannosi presenti sulla piattaforma. Altri social media, come Facebook e Twitter, adottano diverse misure (moderazione automatica dei contenuti, fact-checking e flagging) per combattere la diffusione di fake news e contenuti pericolosi, allo stesso modo anche TikTok applica diversi strumenti per individuare e moderare i contenuti fuorvianti e offensivi. Tuttavia, la linea tra combattere la disinformazione e manipolare l’informazione è estremamente sottile. Ad esempio, si è scoperto che TikTok ha moderato i video relativi alle proteste di Hong Kong e Tiananmen ed ha impiegato moderatori di contenuti nella Cina continentale, il che ha sollevato domande riguardo al fatto che il social media potrebbe adottare la moderazione dei contenuti per far avanzare alcuni programmi e politiche. Tutto ciò, ovviamente, non riguarda soltanto la piattaforma cinese, ma anche ogni altro social media. Basti fare l’esempio dello scandalo Cambridge Analytica che vide la manipolazione di milioni di utenti di Facebook durante le presidenziali americane del 2016 per favorire Donald Trump, o i dubbi di molti utenti della piattaforma Twitter a seguito dell’acquisto di essa da parte di Elon Musk (che tuttavia ha dichiarato di averla acquistata per garantire una maggiore libertà di espressione e non una linea particolare). 

Ma chi o cosa decide quali video verranno visualizzati da ogni utente? La pubblicità ha indubbiamente origini antiche, tuttavia considerando il volume attuale del mercato della pubblicità online può sembrare strano che si tratti in tal caso di un fenomeno recente. A discapito di questa storia breve, la vita dell’advertising su internet è stata frenetica fin da subito. Si pensi al fatto che all’inizio degli anni ’90 gli investimenti in marketing online erano quasi nulli e al fatto che nel 2014 siano arrivati ad oltre 121 milioni di dollari. In particolare, tra il 1999 e il 2000 moltissime attività – dalle più grandi fino alle più piccole – cominciarono ad aprire siti web e ad investire denaro nelle strategie di marketing online con l’obiettivo di attirare traffico e potenziali clienti verso i propri spazi digitali. La svolta vera e propria è poi arrivata con la comparsa delle Adwords, quando nel 2000 Google lanciò il suo sistema di annunci rivoluzionando per sempre il modo di fare pubblicità. Successivamente, nel 2005 – anno in cui, tra l’altro, viene lanciata la prima pubblicità su Facebook (nato nel 2004) – YouTube rivoluzionò nuovamente la storia dell’advertising cominciando a promuovere la partecipazione del consumatore attraverso alcune funzioni interattive dei video che potenziavano la comunicazione audiovisiva. La rivoluzione di YouTube offriva un’ottima opportunità per i brand, tanto che poco dopo – nel 2009 – grazie ad un accordo con esso Google lanciò una nuova versione della pubblicità basata sugli utenti. Dunque, l’advertising online comincia con la nascita e la diffusione dei social media stessi e riguarda ogni piattaforma, non solo TikTok.

TikTok, di proprietà della società tecnologica cinese Bytedance, è un’applicazione che tutti possono scaricare gratuitamente sul proprio smartphone e come tale si arricchisce vendendo alle aziende pubblicità altamente mirata. Ciò che però molti potrebbero non sapere, mentre con ingenuità scorrono un video dopo l’altro, è che nel frattempo l’app raccoglie orde di dati su di loro. Questi dati vengono poi inseriti in algoritmi di analisi estremamente avanzati che forniscono a TikTok informazioni circa i contatti, la localizzazione, gli interessi e, ancor più importante, i consumi di ogni singolo utente. Tutto questo consente all’applicazione di fornire pubblicità estremamente mirata su base individuale. 

Detto ciò una qualsiasi pubblicità per essere efficace deve essere vista e rivista e quale miglior spazio se non quello di una piattaforma dove l’utente medio spende circa due o tre ore al giorno? È ormai risaputo, infatti, che i social media in generale producano assuefazione, essendo creati sulla base di un “modello di estrazione dell’attenzione” che influenza il comportamento degli users invogliandoli a rimanere connessi. La dipendenza causata dai social media si avvale del rilascio di dopamina che un video, un like, una notifica o un follow hanno sul nostro cervello, tuttavia il solo fatto di essere presenti su un social media e di farne uso non crea dipendenza e non ha necessariamente esiti negativi sulla salute mentale dell’individuo. Ciò, infatti, si verifica – soprattutto nel caso del disagio giovanile – in casi in cui vi sono delle pregresse condizioni di mancanze affettive, carenze emotive, problematiche nelle interazioni sociali e così via. Dunque, i social media non sono necessariamente pericolosi e dannosi, bensì lo possono diventare se ne viene fatto un uso scorretto da parte di soggetti, soprattutto giovanissimi, che non vengono educati al loro uso.

Come gli altri social media anche TikTok ha quale modello imprenditoriale quello di tenere le persone attaccate allo schermo e, per fare questo, sfrutta il desiderio di ognuno di noi di avere contatti sociali ed essere accettato cercando di capire come ottenere la massima attenzione da ognuno. In un certo senso potrebbe sembrare uno scambio equo: gli utenti trovano online tutta una serie di servizi apparentemente gratuiti, mentre gli inserzionisti (che pagano tali servizi) si fanno pubblicità sulle piattaforme stesse dove vendono i propri prodotti e traggono profitto. Tuttavia, per rendere una campagna marketing il più efficace possibile gli inserzionisti hanno bisogni di una moltitudine di dati che sono raccolti ed analizzati proprio dai social media. Si tratta di un nuovo tipo di mercato che ha reso le società come TikTok tra le più ricche della storia. Questo di per sé non è un problema, la pubblicità non è un male. Il problema è che più soldi investe un’inserzionista sulla propria campagna più questa raggiungerà gli utenti e sarà efficace, il che inevitabilmente avvantaggia le aziende e gli individui con maggiori possibilità economiche. 

In conclusione, alla luce di quanto emerge dal nostro osservatorio sul fenomeno, Gianpaolo Marcucci in qualità di Presidente dello Human Advisor Project ha preso la recente decisione di organizzare delle campagne di sensibilizzazione ed educazione all’uso dei social media che si terranno in varie scuole ed istituti del territorio italiano. L’idea è quella di non demonizzare a priori i social media, che sono ormai uno strumento fondamentale nelle società odierna, ma di insegnare i più giovani a sfruttarne al massimo le potenzialità in maniera consapevole ed utile.

Francesca Teresi

“Unprepared for motherhood”: stories of stigma among Rwandan adolescent mothers

Unwanted pregnancies are on the rise among Rwandan girls, posing a serious challenge. Teenage mothers’ current reality is heartbreaking. They are frequently discriminated against in society; they are judged, labeled, and have limited access to reproductive health, rights, and education, which puts them at higher risk of sexual abuse and exploitation. When a young mother is abandoned, ignored, or rejected, it has a direct detrimental impact on her life and that of her child(ren), but the ripple effect can also be felt in the future growth of a country. Reducing Teen pregnancy is a priority for the Rwandan government as well as development partners.

The majority of these teen mothers rely on family members for support. Mistreatment and abuse are frequently associated with this, negatively impacting their mental health and well-being.

Experts claim that pregnancies in girls under the age of 18 have irreversible implications. They point out that adolescent births violate girls’ rights, have life-threatening repercussions in terms of sexual and reproductive health, and cost communities a lot of money in terms of development, prolonging the poverty cycle.

According to Rwanda’s National Institute of Statistics, infant deaths and deaths in the first week of life are 50% greater among babies born to adolescent mothers than among babies born to mothers in their 20s (NISR).

Origin of the issue

The ‘culture of silence’ has emerged as one of the major factors contributing to the surge in teen pregnancies. Because of family ties, fear of social alienation, and financial incentives, some families continue to cover up for the adults involved in impregnating adolescent girls. The causes of teen pregnancy are clearly a complex and interconnected set of issues that necessitate multilevel and multi-component remedies.

Thousands of adolescent girls drop out of school or face discrimination or exclusion from schools each year in Africa because they are pregnant or have become mothers. Hundreds of thousands of girls became pregnant as a result of the Covid-19 pandemic, according to reports, while schools were closed, sexual violence in communities increased, and protective systems for girls remained weak.

What can be done

Supporting comprehensive sexuality education in schools and improving youth-friendly services can help to address these issues. Governments, civil society organizations, and communities themselves must collaborate to address issues ranging from education to service provision, as well as the entrenched cultural norms that limit access and uptake.  Addition work to prevent and combat gender-based violence is equally crucial. Families must be taught to forgive and not stigmatize these children.

Ronald Kimuli

Minimalism as an Indicator to Sustainability


INTRODUCTION

Minimalism is way of living that will allow the people to realize the requirements for living a comfortable life. As there are no theorems to prove the definition can vary to understanding of respective person and community. It will help us to conserve resources for future generation along with it will reduce pollution to great extent. Minimalism also will allow healthy lifestyle avoiding excessive eating, needless luxury and most importantly to be effective. The unconscious consumption is leading great burden in human life, it is affecting several factors of Environment. Minimalism sometimes misinterpreted as spending less money, In fact, it is spending money on right requirement. Purpose of being minimalistic is to contribute to sustainable environment to conserve resources.

There are certain elements identified to represent minimalism as an indicator to sustainability and numbers taken from references not presented in this article.

Fast fashion

With the fancy to look a par with trend we are falling for multiple marketing trends by companies, we are buying clothes more than required. To meet the demand the manufacturing of clothes is being done in short time with less resources companies are degrading the quality of the clothes. It is affecting the environment in many ways and consuming excess of water. It takes around 1,800 gallons of water to grow enough cotton to produce just one pair of regular blue jeans. In countries like Bangladesh where there is high export of less expensive clothing, The tanneries release about 22,000 cubic meters of toxic wastewater into nearby rivers every day. Fast fashion not only emits 10% of carbon emissions from human but also pollutes ocean with micro plastic. Respecting minimalistic values will reduce tenuity to follow the trend and thereby decrease carbon emissions through clothes.

Over consumption of Food

Conscious consumption of food is helpful to body and environment. We are unaware of the requirement and consumption of food that is necessary for us. There are different reasons to demonstrate excessive consumption i.e., stress, lethargy and uniformed about environmental emissions. Excessive eating is impacting the organ failures and impacting 40% mortality rate . If we are careful about quality and quantity of the food, we can reduce up to 30% of greenhouse gas affects. Being minimalist is to eat what is good, not more.

The scarcity of water is also a problem that minimalism address where overconsumption of water is leading to lack of safe water for 1 in 10.

Abstemious lifestyle

Minute things we do in everyday life will have high impact altogether. Minimalism will attract people to contribute their fantasies for a better cause. It must be fascinating to live in big house, driving many cars and using number of resources, there are debates stating people are free to live the way they want to until they are respecting the legal rules. With due respect to everyone who have gone through to earn this luxury and prosperity, the questions are “Are we spending on right requirement”, “Is your luxury affecting the community and environment in any way “. Minimalism is not against expensive products, it is not for luxury impacting environment. Multiple gadgets, automobiles and luxury homes consumes lot of resources and creates social impact on people living in the community. Even after obligation to respect ISO 14001 norm and companies policy to recycle approximately 40%, emissions are growing as the global energy demands of the gadget sector will grow 7 to 20 percent by 2030. We reach a footprint of having 720kg CO2e per £1000 spent(approx.) On car manufacturing. Have large homes where high number of resources are used and constructions abandoned for long period of time is not sustainable way of living.

Growing desires of the society is proportionate to consumption of resources. In view of suitability, it is highly important to identify wants and needs. Living with principal needs is proven to be supportable to the nature and healthy for body and mind. This article proposes the practical parameters to consider minimalism as indicator like green electrons and footprints to measure sustainability. There are only few critical problems addressed above to align minimalism principles and explain environmental effects.

Pavani Buddaraju

Humanity in Africa the reward of Life 

Many of us, as well as those who have spent time in East and Southern Africa, are familiar with the term “humanity,” or ubuntu.” Africans believe in humanity, which entails being open and available to others rather than being selfish.  People in old days used to say that “Go alone if you want to move quickly but If you want to go a long way movetogether” Here I raise a question; Is it possible for Ubuntu or humanity to foster a more compassionate, collaborative society while also enabling the social and economic progress that appears to be required for the world’s need for a dignified, secure existence?

Let me drive my argument basing on humanity’s deeper meanings based on the following aspects:  Self awareness, humanity enhances our spirituality, community is tricky and requires skills to see it, humanity broadens our perspectives, and constructing humanity requires practice.

Self awareness and conflict

Through a mirror of individuality, the world cannot survive. I was once in Norway for a summer school, and one of the facilitators said something that made me think about ubuntu (Humanity). He remarked “Am happy I was born in Norway,” which I took to mean that you are more likely to achieve if you are born into a good community. This led me to believe that someone may perceive himself or herself to be powerful because somebody else is weak. If I classify myself as just a black person solely because another is Asian, my identity causes me to be a loser. My masculinity is lacking if I recognize myself as a man and oppress women. Humanity assists us in reinforcing our interconnection as well as our understanding of who we are and what we value. The goal of the humanity (Ubuntu) is to learn about oneself before learning about others. We can’t tell if we’re nice, disciplined, or beautiful unless we accept our communities, which serve as our benchmarks.

As I write these lines, much is happening in our society that exposes brutality that is the polar opposite of Ubuntu-Superiority, economic collapse, global warming, and the tragedies we watch on television, such as in Ukraine and Afghanistan, where isolationists deny girls a future. We Africans believe that no one can thrive in isolation unless they are related to all living things.

“Lovers don’t keep their nakedness hidden from one other.”

“Ubuntu is based on what I call a connected type of existence, which essentially means that you are who you are because others are, whether they are friends, pets, educators, or the ancestors. In other words, as a human being, your humanity and personhood are nurtured through your interactions with others. Nobody can be human by themselves. Whether religious or not, we are all connected. We all believe there is no heaven on earth when a bomb goes off in Somalia or Covid-19 kills people in China. People might argue, weep, and disagree; it’s not like there aren’t conflicts, but the link is a shared understanding of what impacts the community. Such information causes us to reflect on the world’s problems. Here is where Ubuntu (Humanity) comes in.

Creating a sense of Humanity 

Personal, community, and global solutions are all required for building collective self. Ubuntu is the only operating system that can provide this solution (Humanity)

We’ve all heard of love and kindness, and we’ve all experienced how such qualities attract all of our interactions and bring happiness into our lives. What distinguishes out from the usual attitude of human to human is that the most important thing to remember when it comes to ‘ubuntu’ is that one is a human being. As a result, in traditional African civilizations, everyone is welcome; everyone is welcome just because they are ‘watu’ (people). It also implies that one’s humanity is caught up in, or intimately linked to, the humanity of others, and that humans belong together in a bundle of life.

Because of Ubuntu (Humanity) I am

The African concept of humanity rejects the idea that a person can be identified just by their physical and psychological characteristics. Humility is the cultural cornerstone of African common life. It reflects society’s connection, which is humanistic, community-based, and social democrat in nature. Anyone who does not identify with the community is considered an outcast, which is in direct opposition to Liberal beliefs. As a result, an African organization must base its operations on the belief that the community cares about its members.

To sum up, we can observe that diverse facets of human nature and identity develop both within the humanity(Ubuntu) worldview and other systems that respect human nature. These are what humans are as a result of their genetic makeup, how they exercise their freedom, and what they are as a result of their upbringing and culture. Without the receiver and society’s inputs, human nature is incomplete. People do not come into this world with fully formed capacities, and it is part of the ‘humanizing’ process to develop those capacities.

I believe many of you will agree, and we hope Ubuntu or humanity will provide you with more opportunities to ponder on how to expand your own practice for long-term sustainability. Ubuntu is a philosophy and practice that is compatible with the values of social work and resonates with many cultures around the world.

Ronald Kimuli, Head of Africa of the Human Advisor Project